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Prefazione al Volume III

Prefazione

Terminare una storia è tutt’altro che facile, specialmente se è stata suddivisa in più romanzi, come nel caso di una trilogia. Quando la si scrive, infatti, si creano molte aspettative nel lettore, anche per tenere alto l’interesse e la tensione; aspettative che poi bisogna soddisfare nel finale, senza esagerare, evitando di essere tuttavia banali. Il terzo romanzo di una trilogia è quindi spesso il più impegnativo.

Da una parte bisogna fare attenzione a non essere scontati, a non utilizzare cioè stereotipi e cliché già visti innumerevoli volte in altrettanti innumerevoli romanzi; dall’altra, bisogna garantire che la ricerca dell’originalità, del nuovo, non porti a situazioni inverosimili o introduca incoerenze nella trama.

C’è da considerare un aspetto che viene spesso sottovalutato: essere davvero originali è veramente difficile e, tutto sommato, non strettamente necessario. I motivi sono essenzialmente due. Innanzitutto bisogna considerare che è stato scritto talmente tanto da così tanti scrittori in tutto il mondo, che è quasi impossibile essere i primi ad aver avuto una certa idea. Ogni tanto succede ma, anche se si è particolarmente bravi, si può pensare al massimo di introdurre un’idea originale in ogni storia, non di più. Non è verosimile che un romanzo sia costituito da una serie continua di trovate che non siano mai state pensate prima da altri scrittori. Al più, si può lavorare su delle varianti.

Il secondo è che ogni scrittore è prima di tutto un lettore, che ha i suoi riferimenti in altri autori che lo hanno preceduto e influenzato. Un buon scrittore non ha problemi ad ammetterlo e neppure a indicare quali siano stati i romanzieri che lo hanno ispirato. Nel mio caso, in effetti, sono stati soprattutto scrittori di narrativa fantastica, ma non solo. Il primo, infatti, è stato Emilio Salgari. I suoi sono stati i primi romanzi che ho letto, letteralmente divorati quando avevo solo sei anni. Crescendo ho iniziato a leggere soprattutto fantascienza: i miei miti sono stati Isaac Asimov, Philip José Farmer, Jack Vance, Poul William Anderson e Robert A. Heinlein. In seguito ho iniziato a leggere fantasy, partendo da un maestro del genere, J. R. R. Tolkien, per proseguire con autori come Michael Moorcock e Ursula Le Guin.

In realtà un buon scrittore non ha bisogno di essere davvero originale, quanto piuttosto di saper raccontare bene la storia. Ci sono molti capolavori che si basano su storie viste e riviste, come amori contrastati o vendette, e che nella trama in sé sono tutto meno che originali; eppure i loro autori hanno saputo raccontare quelle storie con uno stile, un ritmo, che è stato capace di catturare l’attenzione di generazioni di lettori e di tenerli incollati alle pagine dei loro romanzi.

Io non so se posso dire di esserci riuscito con questi tre volumi, ma sicuramente ci ho provato. Sta poi ai lettori giudicare.

Se il primo romanzo era basato sulla classica avventura del singolo protagonista, quella che in gergo è chiamato “il viaggio dell’eroe”, il secondo si è avventurato in un intreccio fra due trame differenti: una che riprendeva e continuava quella del primo volume; la seconda che aveva un tono più epico, una sorta di sfondo su cui si sono avvicendati più personaggi, alcuni dei quali ho amato molto, come le tre amiche, Beatrice, Eliane e Isabella, che muoiono eroicamente nella Guerra delle Orde.

Il terzo romanzo ha rappresentato una sfida, perché è stato costruito sull’intreccio di ben cinque trame, che vengono sviluppate in parallelo, sia in termini di cronologia che di eventi. Anche in questo volume ho introdotto e ripreso molti personaggi secondari e minori che, tuttavia, hanno avuto un ruolo comunque importante per lo svilupparsi degli avvenimenti. Il principio infatti che pervade tutta la trilogia è quello che gli eventi non sono mai solo la conseguenza dell’azione di pochi individui, ma il sovrapporsi delle decisioni più o meno indipendenti di molte persone, che spesso non si conoscono neppure e tuttavia contribuiscono in qualche modo a creare una certa situazione, dando così forma alla storia.

Il fatto che un romanzo appartenga alla narrativa fantastica, non vuol dire che debba essere inverosimile, anzi, proprio perché permeato da molti elementi di fantasia, deve cercare di essere quanto più realistico e concreto possibile. La vera sfida è quella di rendere reale un mondo che non lo è, facendo sentire a proprio agio il lettore nell’immedesimarsi in questo o quel personaggio, in questa o quella situazione.

Alla fine arriva… la fine. È strano dover dire addio a personaggi che ci hanno accompagnato così a lungo; più strano forse persino per lo scrittore che li ha creati che per il lettore. Eppure è necessario. Tutto ha una fine e spesso è definitiva. I sequel infiniti non giovano a nessuno, perché la realtà stessa che viviamo ogni giorno è fatta di continue “fini”. Finiscono gli amori, le relazioni, le amicizie. Le persone vengono e vanno, nascono e muoiono. La realtà è un continuo cambiamento, dove ordine e caos si contrappongono in un equilibrio che tuttavia non è statico, ma dinamico. Non a caso questo conflitto, che tuttavia è anche confronto e persino armonia, questo yin e yang che governa ogni momento della nostra vita, è uno dei punti focali del terzo volume.

Un’ultima cosa: ho colto l’occasione di questa terza pubblicazione per rinnovare completamente il sito della trilogia, www.lalamanera.it. Ormai la maggior parte degli accessi avveniva infatti attraverso periferiche portatili, come cellulari e tablet, per cui ne ho sviluppata una versione più flessibile, responsive, come si dice in gergo. L’idea è quella di dare nel sito molte più informazioni di quelle che sono contenute nei libri, per cui anche ora che la trilogia è finita, continuerò ad arricchirlo di materiale, anche a seguito delle richieste dei miei lettori.

Spero che questo terzo romanzo vi piaccia perché sto studiando la possibilità di scrivere un prequel su due personaggi che nel tempo hanno acquistato sempre più spessore, ovvero il padre e la madre di Aggart, Rupert e Beth. Ma questa è un’altra storia.

Dario de Judicibus

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Antefatto del Volume III

Antefatto

Qualcuno penserà sia strano che quelli che furono gli anni più sereni della mia vita, abbiano coinciso con uno dei periodi più difficili e dolorosi per il Regno del Nord. Eppure è stato proprio così, e non me ne vergogno.

Dopo la sconfitta inflitta dall’Alleanza alle Orde dell’Oscurità e la fuga di Dagg Elath attraverso il portale della Fucina, il Regno si era trovato ad affrontare una delle crisi più profonde dall’epoca della caduta dell’Impero Avoniano; persino più profonda di quella che era seguita alla disfatta dell’Usurpatore, avvenuta cinque anni prima che io nascessi.

La guerra contro le armate del Signore delle Ombre aveva lasciato profonde ferite, non solo nelle città e nelle campagne, ma nei cuori e negli animi della gente. Le vecchie abitudini, i costumi che si erano consolidati nei secoli, persino le più antiche delle tradizioni, tutto era stato cancellato nel giro di pochi mesi. La guerra aveva provocato migrazioni di decine di migliaia di persone da una regione all’altra, rimescolando il Paese come la corrente che esce dall’estuario di un fiume rimescola le acque del mare. Gente che non parlava neppure la stessa lingua si era ritrovata a convivere fianco a fianco e a lottare assieme per la loro sopravvivenza. Spesso si erano creati forti contrasti, che erano sfociati in vere e proprie faide, per lo più provocate da equivoci e incomprensioni; altre volte, invece, erano nati nuovi legami e persino veri e propri patti di sangue fra famiglie e clan provenienti da regioni agli estremi opposti del Regno.

Era come se qualcuno, poco prima della semina, avesse mescolato nello stesso sacco sementi di decine di piante differenti, tanto che neppure lo stesso contadino fosse più in grado di dire se e quando queste avrebbero germinato, e soprattutto se avrebbero saputo coesistere nello stesso campo. Tutto questo in uno scenario nel quale bande di criminali, milizie cittadine spesso peggiori degli stessi banditi, movimenti indipendentisti e ambiziosi nobili, che oramai riconoscevano l’autorità del sovrano solo a parole, si contendevano ogni fazzoletto di terra di quello che una volta era stato un Regno unito e ragionevolmente sicuro.

Fu un periodo difficile, come ho già detto, che ben pochi ricordano oggi con nostalgia, eppure per me fu un momento magico, vissuto in un angolo di paradiso che mi ero ritagliato sulla costa meridionale della Penisola di Cora.

Ma si sa, nulla è per sempre.

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Antefatto del Volume II

Antefatto

C’è chi afferma che il vero inferno sia sulla terra. E deve essere vero, perché io quell’inferno l’ho visto e l’ho attraversato tutto a piedi. Ancora oggi, pensando a quel lungo viaggio verso la Penisola di Cora, sento di nuovo il freddo attanagliarmi le ossa e congelarmi il respiro nella gola, mentre attorno a me il vento graffia la roccia e il ghiaccio, traendone tristi lamenti che si perdono in un cielo scolpito nel piombo.

Sono passati molti anni, ormai, da quando i quattro Re mi diedero l’improbabile incarico di assassinare Dagg Elath, il Signore delle Ombre, un essere che di umano non aveva quasi più nulla, se mai lo era stato. Ona, tuttavia, ne era convinto, ed era proprio su quell’unica convinzione che si basava la mia missione. Ona… Così vicino eppure così irraggiungibile; sempre al mio fianco, ma per me, in effetti, perduto. Non avrei mai pensato che mi sarei realmente affezionato tanto a un’altra persona, certamente non dopo la morte dei miei e soprattutto dopo quella di Isella. E invece quella sera che incontrai Ona e Messala, la mia vita cambiò radicalmente, anche se allora non me ne resi subito conto.

Ona Ettài era uno strano tipo di mago. Non era uno di quelli che si davano tante arie, che si vestivano in modo elaborato e parlavano sempre usando termini che non riuscivi mai a capire, ma che davano tanto l’idea di essere estremamente importanti. Lui era un tipo semplice, a volte persino ridicolo, o meglio, buffo, almeno finché non c’era da fare sul serio. Allora ti rendevi conto di quanto fosse determinato e soprattutto capace e intelligente. Non era solo uno dei maghi più potenti che avessi conosciuto, tanto più che di maghi non è che ne abbia conosciuti poi così tanti, anche se, forse, più di quanti avessi voluto. Lui era un tipo speciale: aveva una mente affilata come un rasoio e un cuore grande quanto una montagna. Eppure, in qualche modo, era quasi invisibile, quel tipo di persone che se non ci facevi caso neanche le notavi. In effetti, di lui, non sapevo quasi nulla. A volte sembrava un disegno appena abbozzato sul fondale della scena, una comparsa, senza sentimenti, opinioni, importanza alcuna. Ci vollero molti anni per capire che questo era esattamente quello che lui voleva, l’unica sua vera forma di difesa da un mondo che avrebbe fatto di tutto per cancellare una forza e una determinazione ben diverse da quelle che trasparivano dalla sua persona.

Dopo la morte di Messala, mi dissi che non avrei più permesso a nessuno di portarmi via qualcuno che mi fosse caro, e invece… Quanto è stato beffardo il Fato ad aver messo proprio nelle mie mani la lama che tolse la vita al mio più caro amico, anzi, all’unica persona che abbia mai potuto veramente chiamare amico.

Così, mentre il mondo che conoscevo lottava disperatamente per non farsi trascinare in quell’inferno, lo spirito di Ona viaggiava al mio fianco, racchiuso nella lama che ne aveva ucciso il corpo per sua espressa volontà: una sorta di crisalide umana che mi avrebbe protetto in quel lungo interminabile cammino alla fine del quale era la Fucina, dove il Signore Oscuro forgiava i suoi eserciti. Ma la Lama non era solo una compagna, una fonte di energia e un talismano di guarigione: essa era anche l’unica arma che forse avrebbe potuto uccidere l’Arcano, quell’abominio in cui Dagg Elath si era mutato con la sua stessa magia. Colpendo l’evocatore, lo spirito di Ona avrebbe indebolito la sua parte demoniaca, permettendo a quel frammento di umanità, che forse ancora esisteva nella parte più profonda del suo essere, di riemergere e spezzare così per sempre il potere oscuro che lo aveva avvolto fino a quel momento. Questo almeno era il piano. Ma si sa, i piani non sempre vanno come uno vorrebbe…

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Prefazione al Volume II

Prefazione

A volte capita che un autore, di fronte al successo del suo primo romanzo, si senta quasi in obbligo di scriverne il seguito, pubblicando un secondo e spesso anche un terzo volume. Molte trilogie sono nate, in effetti, in questo modo. Non sempre, tuttavia, i romanzi successivi risultano essere all’altezza del primo, tradendo così di fatto le aspettative dei lettori. La verità è che avere successo non è facile e non sempre dipende dalla qualità di un romanzo, ma spesso da tanti imponderabili fattori dei quali la pura fortuna non è fra quelli meno rilevanti. Così, quando succede, quando uno scrittore pensa di aver trovato un buon filone letterario, cerca di sfruttarlo il più possibile. D’altra parte, se i lettori si sono innamorati di un personaggio, desiderano spesso ritrovarlo in un’altra avventura o, meglio ancora, nel seguito di un’avventura precedente. Uccidere un perso­naggio è difficile, un ciclo ancora di più. Ci vuole coraggio per farlo, sia da un punto di vista personale che commerciale. Un esempio lo abbiamo con la serie dedicata ad Harry Potter, nella quale la Rowling dimostra sicuramente un grande coraggio ad aver deciso di chiudere il ciclo con il settimo volume. È una decisione difficile, per uno scrittore.

Qualcosa di simile avviene anche nelle serie televisive. Un classico è Star Trek, dove immancabilmente, quando a scendere su un certo pianeta è un gruppetto di quattro persone formato dal comandante, l’ufficiale scientifico, quello medico e un membro dell’equipaggio del quale nessuno aveva mai sentito parlare prima, si sa già fin dall’inizio chi sarà dei quattro a fare una brutta fine. A meno che, naturalmente, esigenze personali dell’attore o della produzione non comportino la scomparsa di un certo personaggio dalla serie perché ad andarsene è l’attore che lo impersona. Pensiamo ad esempio alla morte di Daniel Jackson nella quinta stagione della serie Stargate SG-1. Dopo una stagione nella quale il suo personaggio è stato sostituito da Jonas Quinn, la produzione ha dovuto in qualche modo “resuscitarlo” per reintegrarlo, a furor di popolo, nella settima stagione.

Ci sono tuttavia serie e trilogie che hanno avuto molto successo e nelle quali gli episodi successivi si sono rivelati all’altezza di quelli iniziali, se non addirittura migliori. Il Signore degli Anelli ne è sicuramente un esempio, ma lo è anche la saga di Harry Potter, appunto, e molti altri cicli di fantasy e fantascienza, per adulti e per ragazzi, tutti caratterizzati da un aspetto fondamentale: l’autore li ha infatti pensati fin dall’inizio come una singola unità, come qualcosa che avesse un capo e una coda a sé stanti, indipendentemente dallo svilupparsi degli eventi negli episodi intermedi. Naturalmente non è sempre possibile avere ben chiara la trama di tutti gli episodi fin dall’inizio, anche perché molti nascono in modo imprevisto, da intuizioni contingenti, che neanche l’autore poteva prevedere. Tut­tavia, costruire un’ambientazione coerente, ben definita fin da subito e avere già in mente come si svilupperà la storia nel suo complesso, è un elemento importante per dare continuità a un ciclo, non solo in termini di contenuto ma soprattutto di qualità.

Questo è appunto quello che ho cercato di fare. Benché abbia già avuto un riscontro molto positivo alla pubblicazione del primo volume, non so se i miei romanzi avranno successo, e comunque non diventerò certo famoso scrivendo qualche romanzo di fantasy, genere apprezzato ancora solo da pochi nel nostro Paese e, per lo più, ignorato dai media, a meno che non ci rifacciamo alle grandi produzioni straniere. Tuttavia, il mio obiettivo resta quanto meno quello di evitare quella che ho chiamato la sindrome del sequel, ovvero di scrivere un secondo romanzo solo perché il primo è andato bene. Il Ciclo della Lama Nera è stato pensato fin dall’inizio come una singola storia, divisa in tre volumi, piuttosto che come una trilogia di tre romanzi distinti. Questo mi ha permesso di fare delle scelte che, seppure commercialmente non vantaggiose, sono a mio avviso importanti sul piano letterario. Un esempio è la morte di uno dei coprotagonisti nel primo volume della serie, ovvero Messala. Ho speso molto per costruire quel personaggio, con il suo carattere scontroso, il suo passato doloroso, la sua insospettata intelligenza e capacità di appren­dimento, così come un’inattesa sensibilità che sembrava contrastare con una durezza e una crudezza molto evidenti. Messala è il classico esempio di come ogni essere umano non possa essere classificato in modo assoluto, ma presenti tante sfaccettature, nel bene e nel male, che volta per volta possono essere portate a brillare a seconda della luce che le illumina. Per alcuni lettori la morte di Messala è stata una brutta sorpresa, molto di più di quella dei tanti personaggi secondari che, come il quarto uomo di Star Trek, si dà un po’ per scontato che alla fin fine ci lascino le penne. Eppure era necessaria, perché è quello che succede nella vita reale. Finché a morire sono degli sconosciuti, persone che vivono in Paesi lontani, dei quali non sappiamo neppure pronunciare il nome, la morte ci appare un fatto inevitabile, persino accettabile, della vita; ma quando a morire è una persona che ci è cara, che ci è sempre stata vicina, allora la viviamo come un trauma, persino un’ingiustizia. La realtà è soggettiva, sempre e comunque, per noi come per i personaggi di un libro, e il fastidio, il dispiacere, la rabbia di alcuni lettori per il fatto che Messala sia morta alla fine del primo volume non sono altro che le stesse sensazione ed emozioni che ha provato Aggart alla morte di quella che, solo nel momento della sua scomparsa, ha realmente compreso essere un’amica. Spesso, infatti, ci rendiamo conto di quello che abbiamo perso, solo quando non lo abbiamo più.

È importante che un libro sappia generare delle emozioni, dei sentimenti, anche negativi. La morte dei genitori di Aggart, all’inizio del primo libro del ciclo, non poteva scatenare queste emozioni nel lettore perché, per chi leggeva, erano, in fondo, dei perfetti sconosciuti. Ma la morte di un personaggio che ci ha accompagnato per tutta una storia, è ben altra cosa. Chi ha letto «La Lama Nera» sa che si tratta di una storia cruda, che non lascia spazio ai tanti “abbellimenti” ai quali molti romanzi e serie televisive ci hanno abituati. La vita non è né ingiusta né giusta: semplicemente è. Non puoi mai sapere cosa accadrà perché, nel suo essere, non c’è logica o regola che tenga. E se questo è vero nel primo romanzo, lo è ancor più nel secondo.

Per quanto i tre romanzi siano infatti solo tre parti di una stessa storia, ho cercato di dare a ognuno di essi una caratteristica ben precisa, un po’ come i diversi movimenti di una sinfonia. «La Lama Nera» ha una struttura fondamentalmente sequenziale, nella quale la linea temporale si sviluppa sostanzialmente in avanti, a parte sporadici flashback, comunque molto limitati. Essa è, inoltre, tutta focalizzata su Aggart e sulla sua storia, seppure occasionalmente i riflettori si spostino sui due co-protagonisti, Ona Ettài e Messala, lasciati tuttavia volutamente in secondo piano, quasi bidimensionali nella loro caratterizzazione, soprattutto il giovane mago, per un motivo che si comprenderà solo nel terzo volume. Il secondo volume è completamente diverso. Esso rappresenta un crescendo, nella sinfonia complessiva, un momento in cui i timpani e gli ottoni hanno la meglio sugli archi e sui legni. «Le Orde dell’Oscurità» sono in realtà due storie parallele che divergono da un punto comune, all’inizio del romanzo, per poi ricongiungersi verso la fine, con rarissimi momenti nei quali si incrociano, spesso in modo così sottile che il lettore se ne rende conto solo alla fine. Da una parte c’è Garreth, coinvolto in una missione così al di sopra delle sue possibilità da risultare del tutto assurda, improponibile. Dall’altra il resto del mondo che combatte la sua guerra disperata contro le Orde del Signore delle Ombre, un’epopea nella quale si intrecciano volutamente decine di fili e di personaggi, in un susseguirsi di scene e tragedie personali che sembrano, in apparenza, non aver alcun legame le une con le altre. Divergenti sono anche le due linee temporali, che si muovono a velocità diverse, tanto che dove una sola battaglia di poche ore può tenere impegnato il lettore per due capitoli, in meno di metà di un altro capitolo, per Garreth possono passare diversi giorni se non addirittura un mese. Ovviamente, alla fine, tutti i fili troveranno un loro capo. Come, non ve lo anticipo: starà a voi scoprirlo.

Per quanto riguarda il lavoro di preparazione al romanzo, se il primo volume è stato caratterizzato da uno studio molto dettagliato per creare l’ambientazione nella quale far muovere i vari personaggi, in questo secondo volume molta enfasi è stata data alle battaglie campali e alla strategia complessiva utilizzata in guerra da ambo le parti. Per far questo ho studiato decine e decine di battaglie dell’antichità, soprattutto quelle dell’epoca romana e pre-romana, ma anche alcune battaglie e assedi avvenuti nel nostro medioevo. Mi sono anche avvalso dell’aiuto e della consulenza di vari esperti, che mi hanno aiutato a ricostruire tutta una serie di eventi bellici assolutamente verosimili, all’interno dell’am­bientazione che avevo creato. Non mi bastava infatti ricostruire scontri realmente av­venuti; non volevo cioè dei semplici cloni della storia, ma episodi nuovi, che non erano mai stati realmente combattuti e del tutto originali, così che anche il lettore esperto di storia non potesse prevederne a priori l’evoluzione.

In questo secondo volume, inoltre, la magia assume un ruolo più importante, pur mantenendo le sue limitazioni intrinseche, anche per personaggi molto potenti come lo stesso Dagg Elath. L’ultimo capitolo dà infine molte risposte alle domande che erano rimaste irrisolte nel primo volume, ponendo tuttavia le basi per tutta una serie di nuovi sviluppi e facendo intravedere come la storia di Aggart tragga le sue origini da una sequenza di eventi avvenuti molti anni prima della sua nascita e dei quali sono stati protagonisti, fra gli altri, i suoi genitori e lo zio, Rubeus, di cui ben poco si dice nel primo volume. Insomma, molte strade trovano la loro conclusione in questo romanzo, ma altre si aprono, in avanti e all’indietro, creando così i presupposti per lo svilupparsi di nuove avvincenti avventure.

Dario de Judicibus

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Antefatto del Volume I

Antefatto

Il mio nome è Aggart, ma gli amici mi chiamano Agi. Mio padre era Rupert, detto “Maglio d’Acciaio” ed era uno dei migliori Maestri Armaioli del Regno del Nord, ma lui diceva sempre di essere solo un bravo fabbro, ed era bravo davvero, mio padre. “Vedi figliolo” mi diceva, quando non ero più alto del sorbo che mia madre aveva piantato dietro casa alla mia nascita, “se sei sempre cosciente di quello che sei e soprattutto di quello che non sei, nessun vanto potrà alimentare in te arroganza e superbia così come nessuna malignità potrà ferire il tuo animo.” “Sii sempre ciò che sei” mi diceva sempre, e quando gli domandavo “Padre, ma chi sono io?”, rispondeva “Chi sei dovrai scoprirlo da solo. Io posso solo dirti chi non sarai: non sarai i titoli che porterai o che ti verranno assegnati, non sarai ciò che gli altri vogliono o pretendono che tu sia, non sarai ciò che tu desidererai di essere ma che non sei.” Solo in seguito compresi le sue parole e quanta saggezza ci fosse in esse.

Come ho già detto, mio padre era molto apprezzato nel suo mestiere, e di titoli e onori ne aveva ricevuti tanti, più di qualsiasi altro uomo che non fosse nato di nobile lignaggio. Le sue mani erano allo stesso tempo forti e delicate, il suo tocco leggero e deciso. In quelle mani il metallo rovente cantava e danzava, fino a prendere la forma voluta. Persino il martello era uno strumento musicale, che traeva dal metallo suoni cristallini e toni cupi, quasi non fosse solo di forgia il suono, ma una vera e propria sinfonia di alti e bassi, di pause e note che spesso rimaneva nell’aria anche dopo il cessare dei colpi, quando la lama sfrigolava nella tempra e la brillante rossa luminosità dell’acciaio si spegneva nell’oscurità di un lavoro finito.

Non c’era arma, scudo o armatura che mio padre non sapesse forgiare. Le sue opere erano stupendamente semplici, senza quei fronzoli e quegli abbellimenti che piacciono tanto ai damerini di corte o che si vedono sfilare nelle parate. Erano strumenti, pensati solo ed esclusivamente per l’utilizzo per il quale erano stati disegnati. Potevano essere coltelli da caccia, spiedi per la Festa della Lunga Notte, oppure armi per combattere. Ognuno aveva un suo scopo e quello e solo quello contava. Le asce di mio padre potevano tagliare in due un’armatura come un pezzo di lardo viene tagliato dal coltello, le sue accette e coltelli da lancio potevano colpire un uomo a trenta passi dopo aver fatto sempre lo stesso numero di giri, le sue spade… ah, le sue spade!

Le spade erano la specialità di Rupert Maglio d’Acciaio, quella per cui era diventato giustamente famoso in tutti e quattro i Regni e anche oltre. Erano semplicemente perfette, assolutamente bilanciate. Quando le si impugnava sembrava avessero una vita propria: sembrava quasi che cercassero con avidità il corpo dell’avversario, che avessero una propria volontà. Daghe, spade a una o due mani, sciabole, strisce, bastarde, persino scimitarre. Da giovane mio padre aveva viaggiato molto, aveva lavorato come fabbro su diverse navi e aveva appreso molti modi di lavorare il metallo. Sapeva fabbricare spade dalla forma inconsueta, che nessuno aveva mai visto a nord delle Mura. Ognuna era un pezzo unico. Non gli ho mai visto fabbricare due volte la stessa spada.

Ogni spada aveva un nome ed era mio padre a darglielo. Spesso gli ho chiesto come scegliesse i nomi da dare alle spade ma lui mi rispondeva sempre “Non sono io a darglieli, sono le stesse spade che mi dicono il loro nome.” Nessuno osava cambiare il nome alle spade che aveva fabbricato mio padre. Una volta un tizio venuto dal lontano ovest, da una terra chiamata Lomezia, lo aveva fatto, aveva cambiato il nome della spada che gli aveva commissionato. Mac na fala, si chiamava, che nell’Antica Lingua significa “Figlia del Sangue”. Qualche tempo dopo ci fu una feroce battaglia nella Piana del Taro fra la milizia del Duca di Passo Breve e quella del Duca di Spiga Dorata. Alla fine della battaglia trovarono il tizio in questione, che era stato assoldato nella Milizia della Spiga, infilzato sulla sua stessa spada. Nessuno seppe dire come fosse potuto accadere, dato che nessuno di quelli sopravvissuti si ricordava di aver combattuto con lui e tanto meno di averlo ucciso con la sua stessa lama, ma da allora nessuno si azzardò più a cambiare il nome a una delle spade di mio padre.

Ma mio padre non era solo un fabbro: era uno studioso. Sapeva parlare decine di lingue, leggere e scrivere anche nell’Antica Lingua, disegnare con una precisione e un’abilità che lasciava stupito persino il Pittore di Corte. La sua biblioteca era seconda solo a quella del Mago di Corte di Loth e faceva a gara con quella per la preziosità e l’antichità di alcuni testi.

Sono passati molti soli e molte lune da allora. È strano: ho iniziato a scrivere queste pagine per raccontare la mia storia, perché non vada perduta ora che si avvicina l’ora dell’Ultima Avventura che mi porterà oltre le rive del Fiume Nero, verso la Terra Senza Ritorno, e finora non ho fatto altro che parlare di mio padre. Solo adesso mi rendo conto di quanto mi sia mancato e quanta parte abbiano avuto nella mia vita i suoi insegnamenti. È veramente strano, perché in effetti la mia storia inizia proprio quando finì la sua, in quella tremenda notte nella quale la Morte calò dai Denti del Lupo e spazzò, con tutti coloro che amavo, anche la mia innocenza.

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